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Il blog di Girolibero

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Lento scorre il Mekong in Laos

“Quante volte ho visto l’acqua limpida sotto di me, ma non mi sono buttato?” F. Iselle

I fiumi sono una grande metafora dell’essere umano: l’acqua è sempre uguale, ma ogni fiume può essere stretto o ampio, tranquillo o rapido, limpido o torbido. I fiumi sono anche un messaggio: il discendere dell’acqua è il loro grande insegnamento che nella vita è bene tendere verso il basso, verso il profondo.
Cosa facevo io in Laos? Un paese senza mare cosa poteva dare a me che cerco sempre la sabbia, gli orizzonti marini, il suono magico racchiuso dentro le conchiglie? La risposta fu facile e immediata quando attraversai il confine tra Thailandia e Laos su una barca a Chiang Khong, l’ultima cittadina thai: il Mekong.

Il Laos e le vie d’acqua

La vita lungo il fiume in Laos

Dopo aver attraversato il fiume per arrivare alla sponda laotiana, mi preparai a fare il visto che costa circa 30 €. I tempi sono veloci, qualche formalità e poi si parte per Luang Prabang, che noi raggiungemmo dopo due giorni di viaggio. Sulla barca, lenta e silenziosa, tanti stranieri come me tutti con meraviglia negli occhi e quella curiosità e apertura strepitose che ti accompagnano quando viaggi e sembrano abbandonarti appena rimetti piede a casa. Il fiume era grande, calmo, torbido come lo sono le acque in Estremo Oriente, non di quell’azzurro chiaro dell’Adige o di quel verde acquamarina del Brenta.

Chiesi al barcaiolo se fosse sempre così lento e tranquillo. Mi rispose guardando l’altra sponda, quasi parlando a se stesso: “Il  Mekong può essere donatore di vita o di sciagura: pesci buoni o malattie potrebbero visitare il tuo villaggio”. Mi viene in mente a ripensarci che il Mekong è per questo un paradosso come gli altri grandi fiumi delle civiltà, siano essi il Nilo, l’Indo, l’Eufrate, il Gange o il mio amato Fiume Giallo.

Dalla barca si guardava la vita scorrere tranquilla ma vivace lungo le sponde: bambini facevano il bagno e giocavano, donne lavavano i panni o le pentole del pranzo, uomini trasportavano le merci più insolite, ma anche animali, monaci in fila per attraversare il fiume, templi nascosti dalla folta vegetazione subtropicale. Era un modo privilegiato di assistere alla quotidianità di questo popolo che mi si svelava subito per quello che è: pacifico, sorridente, genuino e sobrio rispetto ai vicini vietnamiti e thailandesi che improvvisamente mi sembravano corrotti e poco spontanei al confronto.
Dopo una notte di sosta a Pak Beng ripartimmo presto la mattina per raggiungere quella che sarebbe diventata la mia città preferita in Estremo Oriente: Luang Prabang.

Luang Prabang

Che lentezza offre questa città: la mattina inizia con lo spettacolo del tak bat, processione in cui i monaci ricevono offerte dai fedeli, per lo più “sticky rice“. I palazzi coloniali nei toni del crema e del giallo sono dimora di pensioncine e caffé dove si può mangiare una “baguette avec fromage”, eredità dell’Indocina francese. Girare per queste vie e perdersi in bicicletta ti catapulta in un’era diversa, ti fa sentire avvolta in una magia ormai non facile da ritrovare in Asia.

Luang Prabang significa “città del Buddha dorato Phra Bang, una statua di 83 cm che si ritiene sia stata la fonte della protezione del paese dal XIV secolo. Per il suo matrimonio con una principessa Khmer, il guerriero Fa Ngum ricevette la minuscola statua da suo suocero, il re di Angkor, e da allora il buddha è stato rimbalzato avanti e indietro tra Bangkok e Luang Prabang durante le numerose guerre con Siam (ora Thailandia) . Dal 2013 però è custodito nel Haw Pha Bang, lo stupa dorato che si trova nel parco del Palazzo Reale.

Oltre al Palazzo Reale c’è tantissimo per i viaggiatori: il santuario Wat Sieng Thong, situato dove il Mekong incontra l’altro fiume, il Nam Khan; Wat Mai, una delle pagode simbolo, con le sue rappresentazioni del Ramayana; la collina sacra, Phou Si, dove recarsi al tramonto quando una bruma arancione copre come un manto magico tutta la città patrimonio dell’Unesco; le grotte di Pak Ou, dove  secondo la leggenda vive uno dei 15 naga, i serpenti sacri che proteggono le acque e i laotiani.
Ma di tutti i luoghi da vistare uno ha fatto breccia nel mio cuore più degli altri: a trenta chilometri da Luang Prabang si trovano le turchesi cascate di Kuang Si, uno degli spettacoli naturali più belli di tutta l’Asia.  Si tratta di innumerevoli cascate di acqua cristallina che creano piscine naturali dalle cangianti sfumature di azzurro dove è possibile nuotare e tuffarsi. Ma per tuffarsi ci vuole coraggio e quel coraggio io non lo avevo.

Nel dubbio, tuffatevi!

Ero partita la mattina per visitare le cascate nelle ore meno trafficate con due ragazze svedesi incontrate in ostello. Lo spettacolo era inebriante ma arrivati alla pozza più grande al momento di tuffarci mi mancò il coraggio: che fare, le rocce sotto facevano paura, il tuffo era altissimo, l’acqua profonda, non potevo buttarmi con leggerezza, mi sarei potuta fare male, no no meglio guardare gli altri divertirsi. Le ragazze insistevano, con le loro spalle larghe e la loro spavalderia scandinava e una di loro mi guardò fissa negli occhi e mi disse: “Quando ti ricapita?”. Quella frase fece eco dentro di me e mi ricordai di cosa mi aveva detto un giorno mio padre: “Quante volte l’acqua era limpida sotto di me e non mi sono buttato!” E fu così che presi per mano le mie due nuove amiche vichinghe e mi buttai, e poi di nuovo e di nuovo perchè una volta scoperto che è divertente non si vorrebbe smettere mai.

In effetti non mi è mai più ricapitato, né di tornare alle favolose cascate né di visitare Luang Prabang dopo quella volta e se anche ci fossi tornata, se anche mi fossi bagnata nel Mekong un’altra volta, non sarei stata comunque io perchè, come ci insegna Eraclito: “Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume sono gli stessi.”
Immaginate cosa mi sarei potuta perdere: degli indimenticabili tuffi e due nuove amiche.

Pensateci quando vi troverete in quei luoghi, e tuffatevi ogni volta che l’acqua sarà limpida sotto di voi.

 


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